30/08/20

Cuori alla menta

Si erano incrociati in un anonimo ferramenta. Giulio aveva appena smesso di giocare e cercava chiodi e martello per appendere i suoi scarpini. A Martina serviva un filo robusto che fosse in grado di collegare gli eventi della sua vita, e scoprire così il motivo della sua personale dipartita. Entrambi ad un punto morto e sconfitti dagli eventi, erano giunti alla conclusione di essere dei perdenti. Mentre la radio passava You Know I’m No Good di Amy Winehouse, i loro occhi erano entrati in contatto e si erano presentati, prima con una certa timidezza e poi con una dolce carezza. Decisi a mettere da parte qualsiasi incertezza, Giulio e Martina si erano ritrovati a letto a scaldarsi l’anima a vicenda, mentre assaggiavano cuori di cioccolata con ripieno alla menta. Ma nessuno li aveva avvertiti che dopo i trenta il cuore si spaventa, e che presto sarebbero stati travolti da una nuova tormenta. Fermamente convinti dell’autenticità del loro colpo di fulmine, osservavano i vetri della finestra bagnarsi della loro intimità. E mentre fuori il tempo cambiava colore, il fresco sapore della menta aiutava a digerire ogni vecchio dolore.

27/08/20

Anna


Anna, che se la giri non si scompone, volteggia nei ricordi e si atteggia nei weekend. Sabato fish and chips, domenica sex on the beach. In costante ricerca dell’amore, da sempre in guerra con Costanza; con sfacciata arroganza, la sua amica di una vita le aveva rubato il ragazzo. Lei se l’era presa e poi si era data all’alcol, fissando la sua riabilitazione a data da destinarsi. Poi, dopo averle provate tutte, si era data e li aveva provati un po’ tutti; Paolo, Lorenzo, Alberto, i senza nome, i senzatetto e gli artisti del letto.
Anna aveva perso la dignità e poi anche il lavoro. Si era presa un anno sabbatico; Black Sabbath, 666 e 7 giorni su 7 a dannarsi l’anima. Aveva raschiato il fondo del barile e poi era stata salvata da quel vinile; dopo aver scoperto gli Abba, Anna aveva preso le distanze da un certo mondo. Al suo SOS aveva subito risposto Costanza; pace fatta.
Oggi si riaffaccia il weekend e la faccia di Anna inaugura il suo storico brand. Notte infinita, sudore tra le dita e via finché si muore.
Anna, che se la chiami non si scompone, si gira nel letto a pancia sotto e ci sorride dal suo lato più corrotto.

04/04/20

Demo



Aveva caricato le demo nel suo lettore portatile ed era uscito di casa, con addosso una maglietta ancora inumidita dai ricordi della sera prima. Il gruppo che aveva conosciuto lo scorso weekend era una band romana con un nome da incubo, secondo lui. Si chiamavano “Cane nel deserto” e non si capiva bene che genere facessero. Un simil rock mischiato con qualche goccia di jazz, forse, con l’aggiunta di una leggera spruzzata di elettronica. Ne veniva fuori un risultato sconcertante ma allo stesso tempo devastante, un cocktail allucinogeno che tentava di afferrarti dal principio e di portarti a fondo verso quel finale mai desiderato. Eppure, quelle note nemiche che facevano la guerra col suo udito iniziavano a prendere il loro spazio, entravano dentro al suo corpo senza invito e si mettevano comode sul divano, dopo aver spostato la sua roba e il suo equilibrio precario.
Aveva alzato gli occhi verso il cielo mentre finiva il primo pezzo. Gli aveva lasciato addosso una sensazione di naturale incompiutezza. Era il pezzo di apertura, cavolo, avrebbero dovuto curarlo nel modo giusto, pulire lo sporco e sporcare l’immacolato. Il loro nome doveva iniziare a spiegarsi, ad avere un senso, a dare almeno una vaga idea su cosa ci facesse quel cane nel deserto. Aveva lasciato la luna lì dov’era, nascosta dal più geloso dei giorni, e aveva ristabilito un contatto con la strada mentre il secondo brano si avviava verso una fase di stallo, dopo aver tracciato un percorso più popolare, quasi folkloristico. Il terzo sembrava fatto per arrivare dritto al cuore, una ballata che ti accarezzava i sogni e liquidava i tuoi incubi più neri. C’era una parte più frenetica, poi. Ma era un falso. Una presa in giro. Saliva in alto ma senza arrivare dov’era lecito aspettarsi, per poi scendere lentamente fino a ritrovare le più nostalgiche sonorità dell’amore. Il quarto, l’ultimo, era davvero molto veloce. Un pezzo di circa 3 minuti e mezzo che metteva le cose in chiaro; quel povero cane non era fatto per stare nel deserto, piuttosto su una pista da ballo del futuro rimasta imprigionata in un angolo sporco e deprimente del presente. Ma con un occhio furbo e rispettoso verso il meglio del passato.
Quelle demo gli erano piaciute anche se non sapeva bene il perché. Ma non erano le uniche che aveva ascoltato. C’erano gli altri due gruppi. Simili, magari, ma con maggior identità e consapevolezza rispetto alla band romana. Non poteva dare una chance a tutti. Entro quella sera avrebbe dovuto scegliere con chi lavorare e lui non si era fatto alcun’idea, neanche la più confusa.
La via di casa se la ricordava nel frastuono della sua testa, colpita a ripetizione da quella musica primordiale. Si era trasferito da poco. Le sue cose ancora sparse, i mobili fermi nelle pagine internet di Ikea. In effetti, lui, maschio incartato e riluttante nel definirsi uomo apertamente, riteneva il concetto di demo molto simile al suo stato attuale; un campione dimostrativo, registrato pure male, di una vita caotica ancora da comprendere e poi da sistemare. E un nome di donna da dimenticare.
Entrare da quel lato gli piaceva. Il piccolo giardino con la sua fragile natura lo accoglieva di nuovo, come all’inizio di ogni ritorno di fiamma. La porta finestra era stranamente aperta e lui era entrato con una certa tensione. Era sicuro di averla chiusa. Con passi lenti ma decisi, aveva percorso il corridoio che portava al salone quasi deserto. La creatura aveva preso posto sul divano, con la coda che scodinzolava, in mezzo alle sue cose e al suo equilibrio precario.
Un cane, dall’aria dolce e familiare di cui potersi innamorare al primo sguardo.

22/03/20

Protezione divina


Non era una buona idea. Per niente. Ma in quei giorni, in quelle ore, in quei momenti di vita rubata mi veniva ancora più semplice del solito mentire a me stesso. Lo sapevo. Quelle notti passate in macchina, in 4, sarebbero state presto solo un ricordo, pensavo. Un’immagine che si siede accanto a te, in cella, e che ti tiene compagnia insieme agli altri trasgressori in mascherina. Ma cazzo, avevo da poco compiuto vent’anni. E il mio cervello, per quanto lo ritenessi superiore alla media, era scollegato dal resto del corpo e vagava chissà dove in cerca di qualche risposta.
La proposta, comunque, era stata di Flavio.
-Prendiamo la macchina di mio padre. Andiamo prima sotto casa di Bea, che è più vicina, poi passiamo da Marzia. Il posto non è molto distante da lì. Saranno al massimo 5 minuti.
Conoscevo Flavio dalle elementari. Lui aveva lo zainetto delle Tartarughe Ninja, io quello di Spider-Man. Ci scambiavamo sempre la merenda. Sua madre preparava un panino con salame e Philadelphia che era la fine del mondo. La mia, invece, ci metteva l’insalata perché faceva bene, o almeno così diceva. A me sembrava solo un noioso discorso da adulti, e poi quella roba verde era fastidiosa in bocca e rovinava il sapore del prosciutto cotto. In ogni caso, a Flavio piaceva. Poi ha conosciuto Bea e oggi, di insalata, ne mangia a vagoni perché lei è vegetariana. Ma a lui sta bene.
Era un suv della Toyota, color grigio metallizzato. Un gran bel mezzo di trasporto, senza dubbio. Comodo. Ma privo di quel fascino classico e innato che dovrebbe avere una vera automobile. Io stavo cercando qualcosa di interessante alla radio. Avevo trovato una replica della “Zanzara” di Cruciani. Si parlava della facoltà di uscire di casa semplicemente per fare due passi o una corsa. Una cosa che, almeno fino a quel momento, era del tutto lecita. Flavio guidava.
-Questa roba la trovo davvero assurda. - Aveva spezzato il silenzio con una smorfia.
-Che intendi? -
-Questo fatto della gente che esce per andare a spasso. Che ora tutti chiamano “fare sport”. Insomma, le persone muoiono. È una cosa seria. Si sta solo cercando di evitare il più possibile di contagiare e di essere contagiati, giusto? -
-Credo di si. - Gli avevo risposto, mentre incrociavo le braccia.
Flavio mi aveva dato un’occhiata, staccando per un attimo gli occhi dalla strada.
-Non mi sembri molto convinto. -
-No. Cioè, è giusto che si faccia il possibile per limitare i contagi. Ma allora quella gente in metro? Hai visto il video che ti ho mandato oggi?

-Si, l’ho visto. -
-Eh. Non pensi sia molto più pericolosa una situazione del genere che quattro gatti che si fanno una corsa intorno al loro palazzo? -
-Se la metti così, direi di si. Eppure…boh, non li posso proprio vedere. Non so dirti il perché. Oggi mi sono messo in balcone e facevo finta di puntare un fucile contro ogni persona che vedevo correre.-
Ero rimasto in silenzio per qualche secondo. Poi gli avevo detto che era un coglione. In effetti, glielo dico ancora oggi.
-Non lo so. Erano le 6 e qualcuno aveva messo “Gli Spari Sopra” di Vasco Rossi. Che ti devo dire, mi sono fomentato. -
La strada era libera, come ogni notte. Eravamo convinti che sarebbe rimasta tale. Che nessuno ci avrebbe mai tolto quel momento. O forse, a pensarci bene, non era una convinzione reale ma solamente quello che ci raccontavamo a vicenda per sentirci più forti di quanto eravamo.
Flavio aveva tirato fuori una sigaretta dal taschino della giacca. Si era girato verso di me mentre guardava la strada con la coda dell’occhio. Allora io avevo preso lo zippo dalla mia tasca e lo avevo fatto accendere.
-Grazie. Lo sai che prima o poi te lo rubo, quel coso. -
Avevamo questa specie di rito, io e Flavio. Io non fumavo ma mi portavo appresso lo zippo dei Rolling Stones che era di mio zio. Era diventato un portafortuna che avevo sempre con me. Flavio, quando uscivamo insieme, non si portava l’accendino di proposito solamente per vedere di nuovo lo zippo. E per tentare, come sempre, di farselo regalare. Ci prova ancora oggi, in realtà.
Avevo dato un’occhiata al mio iPhone. Su Facebook c’era qualche notifica che era meglio ignorare e, in home page, esperti in materia che dicevano che il virus sarebbe tornato a intervalli più o meno regolari, altri che erano del parere che era solo questione di tempo, prima di sconfiggerlo in maniera definitiva. E poi c’erano gli esperti che commentavano i pareri degli esperti. E così via.
In poco tempo, secondo le previsioni di Flavio, avevamo raggiunto la meta. Tutti e 4 insieme, nel suv. Bea e Marzia, dietro, stavano parlando di smalti per le unghie. Flavio stava scrivendo qualcosa sul suo cellulare e io cercavo qualcosa di buono alla radio.
-Lascia questa. - Mi aveva detto Marzia, con quel tono dolce che tende a schiavizzarti.
Come sempre, era un pezzo che conosceva solo lei.
In quel punto preciso, alla fine di quella via, si poteva vedere la Luna nella sua interezza. Un’angolazione perfetta che ti regalava un attimo divino. A quella vista, ogni problema diventava polvere. E ogni emozione valeva almeno il doppio.
Spendevamo la notte fuori, con l’idea di riprenderci quello che di giorno ci stavano togliendo. Ci eravamo scambiati posizione. Io ero passato dietro accanto alla mia ragazza, Bea aveva preso il mio posto vicino a Flavio.
Passavamo varie fasi, fra cui quella del bacio, del sonno, del far nulla, dell’inventarsi stupidi giochi andati perduti, del conoscersi ancora una volta nelle nostre parole e nei nostri gesti.
Mi ero messo a giocherellare con lo zippo mentre guardavo fuori dal lunotto posteriore. E a quel punto avevo notato le scatole nel bagagliaio.
-Che roba c’è qui? -
Flavio si era girato.
-Dove? Nel bagagliaio? Sono le mascherine nuove che gli sono arrivate a mio padre. Domani deve portarle a lavoro. -
-Sono cinesi. - Avevo notato.
-Si. E sono le migliori che puoi trovare ora. Probabilmente è ancora l’unico ad averle. -
Avevo alzato di nuovo gli occhi e l’avevo vista in quel preciso momento.
-Cazzo. Siamo fottuti. -
Una volante della polizia, a luci spente, veniva verso di noi.
-Ok, prima o poi sarebbe dovuto succedere. - Aveva detto Flavio, cercando di rimanere calmo e di infondere tranquillità anche a noi tre.
-Lasciate parlare me. Ci penso io. -
Marzia continuava a ripetere “merda merda merda merda…”
Bea si mangiava le unghie.
-Siamo fottuti, Fla. - Ripetevo io.
Sceso dalla volante, il tipo in divisa aveva fatto un cenno con la mano al suo collega, che era rimasto in macchina. Ci aveva raggiunto e si era avvicinato con la faccia al posto di guida.
-Abbassa il finestrino, Fla. - Gli avevo detto, mentre mi giravo e rigiravo lo zippo nella tasca.
-Ragazzi, sono le 3 di notte. Mi sembra inutile chiedervi il motivo della vostra uscita. Anche perché siete fermi in uno spiazzale. Però voglio darvela, questa possibilità, e vi chiedo di dirmi sinceramente cosa diavolo state facendo. -
Io e Flavio ci eravamo girati verso le nostre ragazze. E loro avevano fatto lo stesso.
-Allora? - Incalzava l’agente.
E mentre Flavio stava per dire qualcosa (ora che ci penso, non gli ho ancora chiesto cosa gli era venuto in mente), era intervenuta Bea.
-Agente, - Aveva detto, mentre pezzi di unghie le cadevano a terra, -Abbiamo l’ultimo modello delle mascherine cinesi. Quelle buone. -
-Oddio. - Flavio aveva chinato il capo e se lo reggeva con la mano destra. Si stava nascondendo.
-Sta cercando di corrompermi con delle mascherine? - L’agente sorrideva, incredulo. -Perché, vede, noi ne abbiamo in abbondanza e… - E mentre andava avanti nel discorso, veniva interrotto dal suono della sua radiolina.
Una sua collega, che lo chiamava “amore”, lo aveva messo al corrente della sparizione di circa un centinaio di mascherine destinate a loro e ad altri colleghi. Rubate, forse.
Avevamo accompagnato Marzia e Bea a casa. Io e Flavio, ancora in macchina, ci stavamo guardando a vicenda. Eravamo stanchi morti ma siamo comunque scoppiati a ridere, dimenticandoci presto che poco tempo prima avevamo rischiato un infarto. E che lui, ancora peggio, avrebbe dovuto inventarsi qualcosa per giustificare a suo padre la mancanza di una trentina di mascherine.
Ora che ci ripenso, davanti allo zippo di mio zio e ad un caffè venuto male, mi torna in mente Marzia. E cerco di ricordare, invano, quella canzone che conosceva solo lei.

16/03/20

Segnati


Si erano conosciuti quando la tempesta era già finita, e aveva lasciato il posto ad un sole intrigante che splendeva sulle piazze affollate.
Si poteva sentire un solo unico respiro e distinguere, allo stesso tempo, ogni singola anima che sprigionava le paure dell’isolamento e le tramutava in energia imbarazzata; timorosa, dubbiosa se concedersi almeno un abbraccio o, addirittura, il lusso di un bacio.
I segni di quel passaggio di vita erano sotto gli occhi di tutti e sulla pelle di molti. Dentro, poi, si consumava ancora, inevitabilmente, una guerra dei sensi che aveva reso più povere le menti (e le tasche) della gente. Rifarsi, rimettersi prima seduti e poi in piedi non sarebbe stato facile ma neanche impossibile.
Dentro a quel bar di periferia, Anna e Giulio erano seduti l’uno di fronte all’altra. Senza distanza di sicurezza ma con quella psicosi rimasta incollata alla faccia.
-Dovresti levarla. Almeno per bere quel cappuccino. Non credi?
Le aveva detto Giulio, con un sorriso così onesto che aveva spinto Anna, quasi fisicamente, ad accettare il suo consiglio.
Anna, con la mano tremante, aveva fatto scendere giù la sua mascherina e si era lasciata andare anche lei, seppur a fatica, ad un sorriso che diceva “Ok, eccomi qui. Ci sono.”
Il cappuccino entrava bollente a scaldare quelle due vite, emozionate ma anche un po’ fuori fase. I rumori delle cose, i suoni delle loro parole e gli sguardi nuovi.
La mano di Anna aveva smesso di tremare e ora stringeva quella di Giulio.
E i loro occhi, segnati, cominciavano a rientrare in gioco.

29/02/20

Semplice


Dimmi che è tutta una montatura. Che ti sei montata la testa e che non sopporti la panna come all’inizio.
Dimmi che c’è una via di fuga anche se io non la vedo. Dimmi che può funzionare anche se io non ti credo. Che hai la palla di vetro e sai quello che accadrà. A quanti anni avremo il primo figlio e quanto avrà lui quando inizierà a detestarci.
Dimmi che sei ancora lì al bagno a rimettere i tuoi bisogni. Seduta, con l’orgoglio ancora saldo in piedi. Che, se me lo concedi, sarebbe pure il mio turno.
Ma dimmi ancora una volta di quando eri sola a letto e ti stringevi nel cuscino. E poi, si, dimmi anche di quando abbiamo raggiunto la vetta, insieme, e di quanto la mano fosse stretta.
E allora, infine, trova le differenze con quella solitudine e dimmi, amore, che in ogni caso stai bene. Che, in fin dei conti, è tutto molto semplice.

24/02/20

7 anni circa


Quando cerchi di dimenticare quella parte che ti fa bruciare il cuore e la pancia, provi a farti tornare in testa il primo bacio. Ma l’ultimo, inevitabilmente, non si stacca dalla tua memoria e ti gira nella testa così a lungo che, alla fine, lo lasci andare senza giudicare. Il tempo che vivi non ti aiuta, e allora quella fretta di dimenticare diventa una storia con una trama che procede a tentativi. Come un filo infinito e delicato che cerca di venirne a capo. Di uscire, in qualche modo, dal complicato labirinto del tuo intestino.
Il destino: qualcuno crede sia la causa delle nostre sfortune e di tutti quei fatti che ci prendono alla sprovvista e poi ci fanno cadere. Se ti rialzi, sei fortunato. Se non lo fai, sei ancora più sfortunato di chi si è rialzato. Una banalità, forse. Un concetto che meriterebbe più spazio nei bar e nei luoghi sensibili. Per i più, pensieri inconcepibili.
Credo che una specie di strada segnata, ognuno di noi ce l’abbia. Ma credo anche che, se limitiamo il nostro cammino, di sicuro ne rimarrà una sola. L’alternativa a quella strada te la devi mettere in piedi tu. Con la tua passione, la tua spinta e la tua faccia dipinta, con la voglia di esistere e di resistere anche quando fuori piove, e il sole, divenuto un miraggio, non si mostra neanche di passaggio.
Continuano ad arrivarmi mail automatiche che mi ricordano che posso prenotare ristoranti con lo sconto. E mi tornano in faccia le incomprensioni, i messaggi privi di idee, le uscite sperate e poi detestate, il pesante clima di quei giorni che ti fa venire voglia di tornare leggero, come quando volavi nei tuoi sogni di bambino.
7 anni circa. E sentirli tutti.

19/02/20

Facce


Seduti sul muretto, Andrea e Luca dipingevano affreschi di vita di periferia. Onesti, pacati, un po’ disgustati da quei luoghi, i due amici si rivolgevano a vicenda chiamandosi “fra”. Fra una tirata e l’altra, naturale o elettronica a seconda della faccia, si discuteva del casino della sera prima, della fame che dipendeva dalla mattina, dell’ultima sega a scuola e della nuova tipa sotto le lenzuola. Andrea, esemplare sfrontato e attore mancato, era figlio di Anna e Gianni. Luca, figlio dei suoi anni, contava i suoi restanti giorni di vita come se fosse un vecchio in pensione. Non gli mancava nulla, a parte un paio di genitori degni di questo nome. Il suo cognome si vergognava a doverlo scrivere. E quando di vivere non ne voleva più sapere, era Andrea che chiamava. Lui, devoto alla causa, si metteva in pausa. Stoppava la sua vita e piombava su quella del suo “fra”. Un giro al parco, una tedesca con Marco, in sala a rivedere “Fargo”. E poi tutte quelle cose che non hanno senso ma che riempiono l’anima e tengono distanti la noia, il mal di pancia e il bianco sbagliato.
Appoggiati al muretto, Andrea e Luca vedevano passare le facce di quei momenti. Spettri, lupi, viandanti che pian piano affondavano nei marciapiedi mobili coi loro tormenti. Corpi spogli senza documenti a farsi largo nella melma. A farsi. A fasi alterne.
E in mezzo a loro, a volte, passava una faccia che valeva la pena ricordare.
-Fra, l’hai vista Miki?
-Dio, si.
-Mi prendi per matto se ti dico che è troppo bella per scoparsela?
-Per niente, fra. Sai com’è? La faccia che ti vorresti scopare, quasi mai corrisponde alla faccia di cui ti innamori.

17/02/20

Velocità


Sembrava uscita da un film di azione da record al box office. Aveva l’aria di una che ne sapeva ancora poco di questo mondo, eppure più di quanto potevi saperne tu. Nella vita, faceva quello che facciamo un po’ tutti per sentirci vivi di fronte al sole e poi alla luna. Ma lei lo faceva con una onestà disarmante. Si immortalava in quei suoi abiti moderni che sceglieva con gusto, sicurezza e menefreghismo femminile, e avanzava verso la meta del giorno o della notte, passando attraverso un’infinita quantità di punti vivi che evidenziavano il suo fedele corpo e la facevano distinguere dalla massa. Difficile non riconoscerla fra altre mille. Impossibile non notarla in mezzo a cento.
Ma oggi, e anche ieri e poi domani, dov’era finita? Un tipo mi ha detto di averla vista entrare in un locale verso mezzanotte. Ma un altro tipo, alla stessa ora, mi ha detto di averla vista salire in macchina e partire veloce. Tutti, a gran voce, sembravano voler dare un contributo significativo per ritrovare quella ragazza senza nome che ormai era sfuggita anche ai social. Invisibile, inafferrabile e indomabile, la misteriosa ragazza era stata chiamata Velocità. In rete, era l’hashtag più in voga. In posa, naturale o con quel sorriso mai banale, infrangeva ogni regola conosciuta e spaccava da dentro gli schermi al plasma. Come un fantasma, Velocità si muoveva nella notte ma senza mettere paura. Ti passava vicino, sfrecciava dietro l’angolo e prima che tu potessi riprenderla era già arrivata all’altro capo della città. Ora c’era il sole. Ora pioveva a dirotto. L’arcobaleno, autentico lusso terreno, era un segnale del suo passaggio. Della sua armonia, solo un assaggio.
Oggi, un tipo mi ha detto di averla vista accanto a me. Ma io non la ricordo.

10/02/20

Mi sono accorta di te


Solitamente non cercava la felicità. L’attendeva, come le foglie più timide fanno con l’aria. L’amaro che stringeva nella mano gli ricordava quanta dolcezza aveva lasciato andar via negli ultimi tempi. Di colpo, si era reso conto di aver subìto il peso indiscusso di chi era stato più forte di lui. E di chi continuava ad esserlo, insolente e menefreghista verso il prossimo. Approssimava il calcolo effettivo del suo vissuto, arrotondava il numero degli anni passati e quelli futuri a seconda del proprio umore. Assecondava ogni sua discutibile inclinazione a farsi del male, rispettandosi e amandosi così raramente che gli era ormai sfuggito il significato. Parole che anche il vocabolario più aggiornato aveva abbandonato, ripiegando su termini più intuitivi e meno evocativi. Una qualche vocazione l’aveva anche avuta, forse, quando aveva iniziato quella cosa lì per poi lasciarla andare fino a dimenticarla. Aveva trovato un’altra cosa, poi, e aveva lasciato anche quella.
Solo quel locale aveva una qualche predisposizione a farlo riscoprire da capo. A conoscersi di vista, a riconoscersi attraverso il grande specchio dopo la vera conquista. Lei, apparentemente su un altro pianeta, lo aveva notato. Lo aveva fatto di proposito, a far cadere quella moneta. Si era avvicinata al suo tavolo, rossa. E con quella mossa un po’ goffa aveva lasciato un dolce biglietto accanto all’amaro: “Forse non lo sai, ma io mi sono accorta di te.”

28/01/20

Ruby Tuesday


Ruby era entrata da circa due minuti. Si era seduta al bancone, dove le piaceva stare. Lorette non era certo il suo locale preferito, ma ci lavorava sua sorella e non poteva fare a meno di andarci, di tanto in tanto.
-Tutto ok?- Domandò Mia mentre la serviva.
-Potrebbe andare meglio.- Disse Ruby.
-Ehi, sorellina, il caffè.-
Ruby era girata verso quel tavolo da quando aveva messo piede lì dentro. Non si era accorta nemmeno che il suo bel caffè fumante, ora, era lì che aspettava. Ne bevve un sorso, così, giusto perché l'aveva ordinato. Per quanto il posto non le andasse a genio, era una cosa che di solito si godeva. Quel giorno, invece, il caffè era diventato una pratica da sbrigare, ma che andava sbrigata con tutta la calma di questo mondo.
Mia stava servendo un cliente. Un piatto con Hamburger Lorette (cottura media) e patatine. Ruby la vide aggiungere del ghiaccio nel bicchiere di coca e poi tornare verso di lei con aria incuriosita.
-Chi dei due?-
-Cosa?-
Mia sospirò.
-Quale dei due ti piace? Il biondo o il moro?-
-Ma di che parli?-
-Di Mick King e suo fratello Sam.-
-Sono fratelli?- Ruby pareva davvero meravigliata.
-Si.- Rispose sua sorella. -Quello sulla destra, Sam, è biondo finto.-
Ruby sorseggiò un po' di caffè. Mia se la guardò.
-Ma a te piace Mick, vero sorellina?-
-La coca di quel tizio si starà scaldando.- Indicò Ruby con la testa.
-Ne dubito. Ne ho aggiunti ben 5, di cubetti.-
Ora Ruby si era girata di nuovo verso quei due.
-Se vuoi la mia opinione, stanne alla larga. Non girano belle voci sul suo conto.- Disse Mia.
-E sul mio, invece?-
-Tu non c'entri nulla con Mick King, sorellina. Sei dolce e carina, e lui...- Mia si fermò. Ora anche lei guardava verso il tavolo dei fratelli King. Mick aveva fatto cadere la birra addosso a Sam.
-Cazzo fai?- Gli disse. -Guarda come hai ridotto le mie Adidas.-
Mia appoggiò la mano sul braccio della sua collega.
-Vai tu, Anna?-
-Tranquilla, stai qui con Ruby.- Le sorrise.
Ruby posò la tazza, l'aveva quasi finito.
-Comunque io lo conosco, Mick King.-
Mia se la guardò, perplessa.
-Davvero?-
-Si, ci esco ogni sabato pomeriggio.-
-Ma non vai a studiare da Karen, di sabato?-
-Quella è una cazzata che racconto a mamma e papà.-
-Mi stai prendendo per il culo, sorellina?-
Ruby stava osservando Anna che puliva per terra, mentre Sam le guardava il culo. Mick era in piedi e sembrava volesse dare una mano.
-Guardami un po', Ruby.- Mia la richiamò all'attenzione. -Non è che andate a scopare?-
-Per niente.
Un tizio, nel frattempo, voleva ordinare. Mia gli fece segno con la mano, come per dirgli “non rompere i coglioni che sto parlando con mia sorella.”
-Allora dove cazzo vai, con quel coglione, di sabato pomeriggio?-
-Al poligono.- Disse Ruby.
Mia non ci stava capendo più niente.
-E che cazzo ci fai a fare, al poligono, con Mick King?-
Sapeva bene cosa si faceva in un poligono, ovviamente. Ma il fatto che ci andava sua sorella Ruby, era davvero una scoperta per lei. E che ci andava con quel soggetto era ancora peggio.
-Ora ti faccio vedere.-
Ruby mise la mano destra nella sua borsa, che pendeva dallo schienale dello sgabello, e tirò fuori un revolver che era più grande di lei. Aveva visto il tizio della coca che allungava il bicchiere verso sua sorella, per farselo riempire di ghiaccio, forse. Prese la mira, in fretta, e sparò un colpo, mandando in frantumi il bicchiere. Il tizio si guardò la mano che gli sanguinava, ma probabilmente si era ferito con il vetro perché il proiettile che era partito non l'aveva nemmeno sfiorata, quella mano.
Mia era a bocca aperta. Qualcuno aveva iniziato ad urlare, ma Mick era già davanti alla porta a vetri per non far uscire nessuno. Aveva anche lui una pistola, forse una Glock, e ora la stava puntando verso i clienti.

02/01/20

Confessioni di un fantasma


Avevo raggiunto la vetta del Picco di Circe. Non il punto più alto, in realtà. Mi ero seduto su un sasso e aspettavo i miei compagni che avevano proseguito fin su. Mi era stata presentata come una passeggiata da primo dell’anno, quella roba lì. “Tranquillo. Jeans e un paio di scarpe da ginnastica andranno benissimo”. Si, come no.
Ero abbastanza stremato e non volevo credere al fatto che, molto probabilmente, la discesa sarebbe stata ancora peggio. Me ne sarei reso conto qualche minuto più tardi, quando le gambe avevano iniziato a tremare e a maledirmi ad ogni passo.
Il sole riscaldava le rocce e parte del mio corpo. Mi batteva in faccia e sulle braccia. Non era ancora sceso del tutto ma quello che si stava preparando era, senza dubbio, un tramonto da afferrare e da portarsi dietro per un bel po’.
Avevo preso in mano l’iPhone per scattare qualche foto ma i raggi del sole non mi mollavano. Avevo abbassato lo sguardo e, in quel momento, mi era sembrato di non essere più solo. C’erano delle voci che provenivano più avanti, verso la fine del monte, ma in quel punto preciso non c’era nessuno, a parte me. Mi ero liberato dell’iPhone ed ero tornato ad osservare una roccia poco distante. Era l’ultima prima del nulla. Dopo di lei, solo l’orizzonte che iniziava pian piano a prendere i colori di un’arancia non ancora matura. Ero davvero esausto ma nel frattempo ero riuscito a rilassarmi e a ritrovare una buona percentuale di lucidità. Poco meno della metà, forse, in linea con la batteria del cellulare.
Era pieno, di rocce simili a quella. Eppure, per un attimo, mi era sembrato di notare qualcosa di diverso. Qualcosa che ora stava tornando, con molta lentezza, fino a rivelarsi totalmente per quello che era: una mano. Una mano bianca, molto bianca, che afferrava la roccia. Poi, sempre lentamente, era spuntato un viso con dei capelli lisci, di media lunghezza, che danzavano seguendo il leggero soffio del vento. Le avevano coperto il viso, per un attimo, poi lo avevano liberato mostrandolo nella sua interezza; un volto spento di ragazza si era affacciato oltre quella roccia, e aveva costretto le mie mani a posarsi rigide sul sasso su cui sedevo.
Per qualche secondo, il gelo aveva preso possesso del mio corpo. Non aveva bussato. Aveva semplicemente sfondato la porta del mio petto, era entrato e ci si era chiuso dentro. Respirare profondamente era necessario ed era ciò che tentavo di fare, stringendomi nella mia felpa per cercare di resistere a quei maledetti brividi. Ma lei mi stava fissando, e allora ciò che mi ero promesso di fare rischiava di diventare davvero molto complicato.
-Potresti almeno chiedermi se mi serve aiuto, eh?-
Ora aveva iniziato anche a parlare. La mia bocca era cucita. Il gelo avrebbe potuto uccidermi all’istante.
-Ti...ti serve aiuto?- Le avevo chiesto, infine, tirando troppo per le lunghe quel ti.
-Mi prendi anche per il culo? Comunque grazie ma credo che tu non possa aiutarmi.-
-Potrei provarci, se vuoi.-
-Davvero?-
-Si.-
Mi ero allungato e avevo portato la mia mano accanto alla sua. Poi l’avevo stretta ma non avevo preso nulla. Non c’era. Era una mano vuota. E da vicino era ancora più bianca.
-Visto? Che ti avevo detto?-
Mi ero sentito in colpa e mi ero tirato indietro, di nuovo seduto su quel sasso. Ci stavamo fissando a vicenda, entrambi sorpresi da quel singolare incontro.
-Dovrei risalire ma non ci riesco. Dovrei farlo davvero. Temo di non avere più molto tempo.-
-Non so perché riesci a vedermi e a parlare con me,- Aveva proseguito. -Evidentemente ci sarà un perché. Ad ogni modo, visto che sei qui, avrei da farti una confessione, se non ti dispiace.-
Il gelo se n’era andato, quasi del tutto. Volevo ascoltarla, più di ogni altra cosa.
-Dimmi.-
-Ok. Non è una cosa facile. Non l’ho detto a nessuno, prima d’ora. Io sono caduta, non so se l’avevi capito. Ma credo che non sia stato un incidente, anzi, ne sono sicura. Ero qui con il mio ragazzo, mi sono girata e ho perso l’equilibrio. Credo sia stato lui, a spingermi.-
Il gelo era tornato. Così forte da paralizzarmi.
-Eravamo soli, come siamo soli ora io e te. E se qualcuno non mi avesse toccata, io non sarei caduta. Il fatto è questo; ho passato un mucchio di tempo a domandarmi perché. Ho pensato e ripensato. Sono andata indietro con la mente e ho cercato nelle nostre vite, sperando di arrivare a capire, finalmente, cosa possa aver fatto di tanto orrendo per meritare questo.-
Per la prima volta da quando si era affacciata da quella roccia, la ragazza pallida aveva abbassato lo sguardo. Timorosa, a disagio.
-Se riuscissi a capirlo, credo che potrei andarmene da qui. Sarebbe una bella cosa, per me.- Era tornata a guardarmi. Cercava di ritrovare una forza interiore, una dignità che si era pian piano spenta come il colore della sua pelle.
-Ma ti sto ammorbando, mi sa.- Mi aveva detto, col sorriso più sincero che avesse potuto fare.
Io ero lì a guardarla e ripensavo alla sua storia. Al finale, più che altro. Così doloroso che anche il vento si era concesso una pausa e aveva smesso di soffiare.
-No, per niente.- Non ero riuscito ad aggiungere altro. Poi, ripensandoci, qualcosa da dirle l’avevo trovata. -Io non ti conosco e non ho idea di come sia stata la tua vita. Ma ora che ti guardo negli occhi, sono più che convinto che, qualsiasi cosa tu abbia fatto, non debba essere per te un tormento. Non cercare spiegazioni dove non puoi trovarle, non trascinare la tua nuova esistenza sopra questo picco. Per quanto sia incantevole, non ne vale davvero la pena.- Le avevo sorriso anche io. Avevo cercato di farlo come lo aveva fatto lei, ma sapevo di non esserci riuscito.
-Facciamo così,- Le avevo detto. -Ora io inizio la discesa. Ne avrò per un po’, di sicuro. Per un bel po’. Nel frattempo, tu fai quello che devi e poi ti stacchi da quella roccia. Prenditi il tempo che ti serve, senza fretta. Guarda l’orizzonte. Quando avrà il colore di un’arancia matura, fallo. E ricomincia ad amarti.-
-Ok.- Mi aveva regalato un altro sorriso. L’ultimo, forse. Il più amaro ma il più sincero.
Il vento era tornato a soffiare leggero. I suoi capelli lisci brillavano sul mare.
Con qualche difficoltà e con una scivolata alquanto imbarazzante, ero riuscito infine a tornare giù, al punto da cui ero partito. Avevo preso un gran respiro e poi mi ero voltato, avevo alzato lo sguardo verso il cielo e avevo visto la ragazza color arancio, immersa in quel sole sottile ma ancora caldo.