19/12/14

L'ascensore


Erano entrati insieme in ascensore, pur non conoscendosi e non avendo nulla a che vedere fra loro. Lei era una broker assicurativa che profumava come un’automobile appena uscita dal concessionario. Lui, alla vista poco curato, era uno scrittore di guide turistiche.
-A che piano va?- Le domandò con assoluta indifferenza, mentre finiva di appuntare qualcosa sul suo Moleskine nero.
-Al quinto.- Rispose lei, sbuffando silenziosamente.
L’ascensore, di norma, è un luogo in cui si trascorre una minuscola parte di vita in compagnia di qualcuno di cui poi, molto probabilmente, non si sentirà la mancanza. Il tempo che si trascorre dentro è ben minore rispetto a quello che si può passare all’interno di un autobus o di un vagone di un treno ma, a causa delle sue dimensioni di gran lunga inferiori, non si sa bene come impiegarlo. E l’imbarazzo è la spiacevole conseguenza.
La ragazza diede un’occhiata alla targhetta in alto: “Portata massima 5 persone”. Lui schiacciò, in successione, i pulsanti 4 e 5. L’ascensore, forse anche lui un pò imbarazzato, emise un leggero, quasi impercettibile brontolio. Poi iniziò a salire.
-Ha sentito?- Domandò lei dopo aver dato un’occhiata verso l’alto.
Il ragazzo continuava a scrivere sul suo taccuino con una velocità impressionante. Non era possibile che quelle parole le avesse pure pensate, prima di metterle su carta. Andava davvero troppo veloce.
-Se si riferisce a quel rumore,- Le rispose, -Non credo sia nulla di preoccupante. A giudicare dall’aspetto, questo mi sembra un ascensore affidabile.-
La ragazza se lo guardò con aria dubbiosa, come a voler fargli presente che quell’ascensore, lui, non l’aveva guardato nemmeno per un secondo. Ma non lo fece. Incrociò le braccia e iniziò a muovere a ritmo il piede destro.
-Se lo dice lei...- Gli rispose, non troppo convinta.
Affidabile o meno, quell’ascensore era decisamente silenzioso. A parte quel rumore iniziale, infatti, che comunque era stato notato più che altro dalla ragazza, non si percepiva la minima vibrazione. In effetti, se non fosse stato per la luce gialla che illuminava il numero 1 e ora il numero 2, non si era in grado di giurare che si stesse muovendo. Gli unici rumori udibili, più o meno piacevoli a seconda dei punta di vista, erano la penna di lui che quasi faceva l’amore con la carta, e il tacco di lei che sbatteva contro la parete. La ragazza fissava i grandi numeri nei cerchi che segnalavano i piani, mentre il ragazzo si era stranamente interrotto, distratto forse dal tacco di lei che ora osservava di nascosto, quasi sbirciando.
-Non doveva scendere al quarto, lei?- Gli chiese.
Il ragazzo tornò di corsa al suo taccuino.
-Si, appena ci arriviamo levo il disturbo.- Le rispose, abbozzando un sorriso.
-Il fatto è che l’abbiamo appena passato ma l’ascensore non si è fermato.- Gli fece notare.
-E’ vero.- Le rispose, dopo aver prestato la sua attenzione verso i grandi numeri che si illuminavano man mano che si saliva.
-Forse qualcuno l’ha chiamato prima che io schiacciassi i pulsanti.-
-Può darsi.- Disse lei, che era ormai in guerra con quella parete.
Doveva essere così, comunque, visto che l’ascensore non si fermò neanche al quinto. Ma non si fermò neanche ai successivi. In pratica, l’ascensore non si fermò mai.
Erano passati svariati minuti durante i quali i due ragazzi, dopo alcuni giustificati momenti di panico, si erano presentati e si erano pure un pò vissuti. Marco, Alice. Seduti, l’uno accanto all’altra.
-Secondo te ci stiamo muovendo?- Chiese Alice.
-Direi di si.-
-Eppure i piani dovrebbero essere finiti. Lì ne porta 15 e il numero 15 è illuminato da…- Alice ci pensò su. -Da quanto tempo è che il numero 15 è illuminato? Saranno dieci minuti?-
-Come minimo.- Le rispose Marco.
Il suo taccuino ora era in tasca. E la sua mano toccava i capelli lisci di Alice.
L’ascensore non accennava a fermarsi e andava allo stesso ritmo di sempre. La novità, che i due ragazzi non avevano notato, era che il numero 15 aveva smesso di brillare, e che al suo posto c’era un grande cuore illuminato.
Alice chiuse gli occhi e si appoggiò alla spalla di Marco, che ora aveva ripreso il taccuino e stava per scriverci sopra qualcosa.
-Quando uscirai di qui, Marco, sentirai la mia mancanza?-
Marco si bloccò e ci penso su per qualche istante. Poi riprese a scrivere.
-Ne dubito, Alice. Una volta usciti di qui, credo che io non sentirò minimamente la tua mancanza. Come tu non sentirai la mia. Torneremo alla vita che abbiamo sempre sognato e per cui abbiamo combattuto. L’ascensore conta nulla.-

18/02/14

Morta e sepolta


L'aria della mattina gli metteva sempre un gran freddo. Gli entrava nella ossa e gliele schiacciava tutte, impedendogli di reagire al mondo. Nel resto della giornata andava decisamente meglio.
Ma quella mattina, quella gelida mattina del 12 febbraio, Fabrizio aveva caldo. E poteva esserci solo una causa a quell'insolita condizione che provava. Quella causa si chiamava Marta, ed essendo una donna era certamente una causa persa.
I due si conobbero al 24 Ore, un locale alla moda ma che nessuno sapeva bene a quale moda appartenesse. A loro bastava sapere che fosse un locale cool, come diceva lei. Quella sera c'era la musica di Parov Stelar e Fabrizio tentò un approccio culturale.
-Quindi non ne hai mai sentito parlare, eh..."
-No. Mi spiace.-
Gli andò male ma non si arrese. Rimase nei paraggi e quando la vide sola ci riprovò.
-Fa musica dance ma piuttosto sofisticata. Ci mischia jazz e roba varia. E' davvero forte.-
-Questa non è male, sai?- Gli fece lei in tono convinto.
-Comunque...- Continuò, -Se vuoi portarmi a letto non c'è bisogno di questi giochetti.-
Fabrizio rimase con la cannuccia attaccata alle labbra. Stava bevendo un Alexander.
-Io non voglio portarti a letto.- Le disse.
Lei se lo guardò come per dire "ma chi vuoi prendere in giro?". E lui pareva averla sentita perché poco dopo modificò la versione.
-Cioè,- Fece lui, -Non è che io non abbia intenzione di portarti a letto...è solo che non lo farei con tutte quelle che stanno qui dentro. Per dirti che se ci sto provando con te ci sarà un motivo, insomma..."
Lei se lo continuava a guardare con la stessa espressione di prima. Lui si sentì un vero coglione.
Quella mattina. Si, quella gelida mattina del 12 febbraio, Fabrizio se ne stava steso a letto e aveva fatto partire un cd di Parov Stelar con il telecomando dello stereo. Lei, Marta, era in piedi davanti a lui e iniziava a muoversi tutta. Lui se la guardava, concentrato su ogni suo piccolo gesto. Come quando si metteva la mano destra nei capelli e li faceva spostare di qua e di là. Oppure quando metteva entrambe le mani sui fianchi e andava giù piano piano mostrandogli cosa aveva in fondo alla schiena. La scena si ripeteva di tanto in tanto da circa un anno. Più o meno da quando lui gli aveva detto "ti amo" nel parcheggio del 24 Ore e lei gli aveva risposto "anch'io".
A Fabrizio venne un gran caldo dentro, tanto che dovette liberarsi di quella sottile maglietta bianca che indossava. Spostò il piumone che gli copriva le gambe e si mise con le braccia incrociate.
Marta fece qualche altro passo e poi cadde di proposito sul letto. Ci si buttò di schiena. Poi si girò e procedette a gattoni verso di lui. Fecero sesso. Del sano sesso con la brezza della mattina che penetrava dalla spiraglio della finestra.
Quando Fabrizio si svegliò, si accorse che non era più steso a letto. Stava seduto su una sedia, quella che era davanti alla scrivania. Aprì gli occhi con difficoltà, e non riuscì ad aprirli del tutto prima di qualche secondo. Improvvisamente gli arrivò in faccia dell'acqua, e solo in quel momento si accorse di essere legato a quella dannata sedia.
-Chi è Marzia?- Domandò Marta con un secchio nelle mani.
Fabrizio non ci stava capendo molto. Non riuscì a dire nulla. Se la guardò negli occhi scuotendo la testa.
-Chi. E'. Marzia. Capisci l'italiano, amore mio?- Fece lei, guardandolo bene in faccia.
-Di cosa stai parlando? E perché sono legato? E' un qualche tipo di gioco?- Fabrizio le sorrise, ma evidentemente non gli era chiara la gravità della situazione. Intanto, nella stanza risuonava This Game di Parov Stelar.
-Mentre scopavamo hai ripetuto il nome di questa Marzia.-
-Ma cosa stai dicendo?-
-Non prendermi per il culo, cazzo.- Rispose lei, in modo concitato. -Hai detto "dai Marzia, vieni per me" e cazzate di questo tipo. Io credevo di aver sentito male ma poi lo hai detto di nuovo. E ancora. Finché ti ho dato una testata e ti sei azzittito.-
-Mi hai dato cosa? Ma perché mi hai dato una testata?- Domandò Fabrizio.
-Perché hai ripetuto il nome di un'altra mentre mi scopavi, ok?-
-Avrai capito male, amore.-
-Ah si? E avrò pure letto male qui, giusto?- Marta prese il cellulare di Fabrizio da sopra al letto e glielo mostrò. C'era una conversazione. Fra lui e una certa Marzia. Fabrizio non aprì bocca per qualche secondo.
-E' la mia ex.- Le disse poi. -Ma ti giuro che è una faccenda morta e sepolta.-
-Lo sai che sei un bastardo, vero?- Marta gli tirò il cellulare addosso e gli diede le spalle. Iniziò a piangere. Le lacrime caddero sul tappeto. Erano così pensanti, quelle gocce, che fecero rumore una volta giunte a terra. Poi si girò verso Fabrizio.
-Ascolti Battiato?- Gli domandò, con le ultime lacrime che scendevano.
-Cosa?- Rispose lui.
-Ti ho chiesto se ascolti Battiato. Allora, l'ascolti o no?-
-Ho sentito cosa mi hai chiesto ma...ma che cazzo di domanda è? Comunque no, credo di non averlo mai ascoltato in vita mia.-
-Pure io.- Fece lei mettendosi seduta sul bordo del letto. -Cioè non l'ho mai ascoltato fino a ieri sera, quando mi è capitato di beccarlo alla radio.-
Marta allungò la mano per prendere il telecomando dello stereo. -Allora l'ho registrata.- Gli disse, e schiacciò il tasto. Era Auto da Fè di Franco Battiato.
Marta si alzò in piedi e si sedette sopra Fabrizio. I loro visi erano così attaccati che lui provò vergogna. A lei scese una lacrima ma poi basta. Cominciò a muoversi su e giù, simulando una vera scopata con la brezza della mattina. E mentre lo faceva, pronunciava svariati nomi maschili, compreso quello del suo ex che Fabrizio conosceva bene. Lui cercò di farla smettere ma senza riuscirci. Andò avanti così per tutta la durata del brano. Poi, una volta finito, lei si alzò e si rivestì lì davanti a lui.
-Tranquillo,- Gli disse. -Non ho nulla di serio con nessuno di loro. Anzi, sono tutte storie morte. Morte e sepolte.-
Lui non disse nulla. Lei schiacciò di nuovo play e se ne andò.

13/02/14

Le luci di Tokyo



Più di ogni altra cosa, Asami voleva vedere Tokyo.
Lei, quattordicenne di provincia che non si era mai spinta più in là della sua fidata edicola, trovò il dvd proprio in quel chiosco pieno di quotidianità.
L'edicolante la vide sbirciare in mezzo a quel mucchio di roba che lui non sperava più di dar via.
-Sono arrivati oggi.- Le disse, mentendo.
-Tutti questi che vedo qui?- Indicò lei verso quella pila di dvd. Notò che alcuni erano stati pure aperti.
-Beh, non proprio tutti.- Fece lui. -Quelli che vede sopra, cioè più o meno i primi dieci.-
-Ah, ok.- Rispose lei, alquanto dubbiosa.
C'era parecchia polvere fra un dvd e l'altro, e le sembravano tutte vecchie edizioni. Anche il suo lettore dvd era bello vecchiotto, pensò, ma di polvere non ne aveva perché sua madre la levava di continuo, maniaca com'era. Comunque di roba interessante ce n'era, e pure i prezzi erano convenienti. Su internet non avrebbe risparmiato più di qualche centesimo, con l'aggravante di dover aspettare almeno 48 ore per riceverli a casa. Asami li esaminò con attenzione. L'edicolante se la guardava di tanto in tanto, fra un cliente e l'altro. Forse aveva paura che avesse intenzione di rubare? Può darsi, ma lei era una cliente abituale e abitava lì vicino, e lui lo sapeva bene. Forse era solo incuriosito dai suoi capelli. Asami cambiava il loro colore una volta a settimana. Quel giorno li aveva viola.
-Questo quanto viene?- Domandò Asami.
Lui le stava fissando i capelli. Era completamente in trance.
-Mi scusi..- Fece lei, cercando la sua attenzione.
L'edicolante si scosse un attimo e le sorrise. -Mi dica.- Le disse.
-Vorrei sapere quanto viene questo.- Asami gli allungò un dvd.
Lui lo prese, si mise gli occhiali e controllò sulla lista che aveva lì accanto lui.
La ricerca non sembrava portare nessun esito.
-Se vuole ripasso più tardi, eh.-
-Ma scherza!- Fece lui, con la voglia di trovarlo davvero, il prezzo di quel dvd.
-Eccolo qui. "Le luci di Tokyo".- L'aveva trovato. -Viene 699 Yen, signorina.-
Un buon prezzo, pensò lei.
-Ok. Lo prendo.-
-Bene.- Le sorrise, con convinzione.
Asami tirò fuori dalla tasca una banconota da mille e gliela passò. Intascò il resto e prese il suo dvd.
L'edicolante la salutò e rimase a guardare i suoi capelli mentre lei se ne andava. Sembrava accecato, eppure erano dei normalissimi capelli di colore viola.
Appena entrata a casa, Asami andò diretta in camera sua e inserì il dvd nel lettore mentre aveva ancora le scarpe ai piedi. Se le tolse alla svelta, e pure i calzini. Continuava a spogliarsi, tenendo sempre d'occhio lo schermo con la paura che iniziasse senza di lei. Si mi mise stesa a letto, a pancia sotto, con i piedi verso il cuscino e i gomiti che le reggevano il viso.
"Le luci di Tokyo" era un documentario sulla capitale del Giappone. E pareva fatto pure molto bene. C'era questo tizio, Haruki Yoshimoto, che era la voce narrante. Haruki non compariva mai in carne e ossa, si sentiva solamente la sua voce. Asami ne era estasiata.
Haruki fece solamente un accenno storico, poi passò subito alla Tokyo di oggi. Ne descrisse ogni singolo particolare, riguardante il cibo, lo shopping, i modi di vivere dei suoi abitanti, l'aria che si respira, i quartieri, i desideri e le aspirazioni ma anche la malavita. Ad Asami colpì la parte in cui questo Haruki parlava della vita notturna. Le rimase impresso il fatto che gli abitanti di Tokyo potevano trovare ogni cosa pure nel cuore della notte. Avete presente i distributori automatici? Ecco, quei cosi a Tokyo distribuivano davvero di tutto, dal cibo ai vestiti.
-Se avete trascorso una notte un pò movimentata, diciamo così, e avete un importante appuntamento di lavoro sul presto, beh, niente paura...perché i distributori automatici di Tokyo distribuiscono pure cravatte.- Diceva Haruki.
Sullo schermo passavano decine e decine di distributori diversi. Poi ne passò uno a cui Asami diede più attenzione.
-Si..- Diceva Haruki, -Ci sono pure i distributori di biancheria intima.-
Ad Asami venne da sorridere. Era imbarazzata ma non sapeva il perché. Voglio dire, questo Haruki mica era lì in persona a raccontarle di quei distributori da cui uscivano tanga e autoreggenti. Eppure eccola lì, Asami. Tutta rossa con gli occhi dolci.
Il documentario durò circa un'ora e un quarto, ma lei aveva già visto che dal menù principale si poteva accedere a diversi contenuti speciali. Cliccò subito sul tasto "menù" e attese qualche secondo il caricamento. Ora, ciò che vedevano gli occhi di Asami non saprei dirvi se era ciò che effettivamente era scritto sullo schermo, oppure se fosse uno scherzo della sua mente. Fatto sta che il primo contenuto speciale era sotto alla voce "Un giro in giostra con Haruki". Poi ce n'era un altro che si chiamava "Il distributore automatico di Haruki", e infine un terzo con il nome di "Il giardino zen di Haruki". Asami si stropicciò gli occhi. Ma una volta eseguita quella mossa, si accorse che non era cambiato un bel niente. I titoli dei contenuti extra erano sempre quelli. Asami si alzò e andò a prendere il suo vecchio portatile nero della Toshiba. Tornò a letto, lo accese e digitò su google il nome di Haruki Yoshimoto.
Non c'erano molte voci che riguardavano questo tizio. Alcune di queste facevano confusione con altri personaggi più o meno famosi che avevano in comune lo stesso nome oppure lo stesso cognome.
Poi trovò quella notizia in mezzo ad altre centinaia. C'era un link che portava ad un famoso quotidiano online della città di Tokyo, il cui titolo era "Il porno di Haruki Yoshimoto nelle Luci di Tokyo". Asami aprì il link e lesse tutto l'articolo. In poche parole, questo tizio era uno stimato giornalista e reporter di Tokyo che era stato poi licenziato, e che in seguito si era dato al porno, nello stupore generale dei suoi ex colleghi e dei suoi familiari. Diceva pure che per fare uno sgarbo ai tizi per cui lavorava, aveva fatto modificare alcune copie del suo ultimo documentario, chiamato appunto "Le luci di Tokyo", facendoci nascondere all'interno alcune scene esplicite di sesso. Infatti poi divenne famoso proprio come il porno nascosto nelle luci di Tokyo. Haruki Yoshimoto era stato denunciato, diceva infine l'articolo.
Asami chiuse il portatile e rimase per qualche secondo a fissare il menù del dvd. Poi diede un'occhiata all'orologio a muro che stava sopra alla tv. Toru, il suo ragazzo, sarebbe arrivato fra poco.

12/02/14

Nel mito di Malibù



Eravamo io e lei sul divano, mezzi nudi. Io ero seduto, lei era stesa con la testa che posava sulle mie gambe (e non solo). Stavamo passando al vaglio un centinaio di foto stile polaroid che aveva scattato sua cugina. Erano tutte foto che ritraevano la splendida Malibù.
-Te la ricordi questa?- Mi fece lei, mettendomene una davanti agli occhi.
Io le diedi un’occhiata incerta. Ero piuttosto fatto. La foto ritraeva una spiaggia con un mucchio di gente e giganteschi ombrelloni per metà viola e per metà gialli.
-Si. Me la ricordo.-
Badate bene che io e lei non ci eravamo mai stati in quella spiaggia. Non eravamo mai stati a Malibù. Ci era stata sua cugina che a quell’epoca era una modella nel pieno della sua carriera. Poi morì di overdose. Cioè per aver assunto troppa Malibù. “Se non sai darti una regolata, a Malibù non ci puoi mica vivere”, ripeteva sempre. “Se non sarà la droga a fotterti, prima o poi lo farà qualcos’altro”.
Insomma, quella foto io me la ricordavo ma finiva lì. Io e lei non avevamo alcun tipo di ricordo legato a quell’immagine, semplicemente perché non riguardava il nostro passato né tanto meno il nostro presente. Speravamo che avrebbe riguardato il nostro futuro, si, quello non lo nego. Ma un conto è sperare, un conto è ciò che puoi effettivamente realizzare. Chi ha inventato quel detto che dice “volere è potere” dev’essere un gran coglione, mi ripetevo sempre.
-E questa? Questa te la ricordi?- Me ne spiaccicò un’altra in faccia. Ancora un’altra spiaggia. Ancora ombrelloni viola e gialli. Però stavolta c’era molta meno gente perché il tempo non era un granché.
-Si, mi ricordo pure questa.- Risposi io con un accenno di noia.
Cominciai a girarmi intorno alla stanza in cerca di tesori. Quella roba che ci eravamo fumati dove stava? E quella che ci eravamo bevuti? Lei mi prese la faccia con la mano destra e me la girò verso la sua. Esigeva attenzione, lo capisco. Ma stavamo guardando delle dannate foto che avevamo analizzato giorno e notte aspettandoci chissà cosa. Speravamo forse che ci avrebbero risucchiato dentro? Forse si, lo speravamo. Ma non avvenne mai. E sapevamo che non sarebbe mai avvenuto.
Lei accavallò le gambe ma sempre mentre era stesa. Il ginocchio dava l’impressione che la sua gamba destra fosse diventata una discesa delle montagne russe. E la sua coscia era la salita. Lei mi prese di nuovo la testa e me la spostò verso un’altra di quelle fottute foto. Ovviamente la riconobbi subito, visto che solo quella l’avevamo visionata per almeno 3 ore in tutto. Era la villetta della cugina, o meglio, di suo padre. Una villetta super moderna con quelle mega finestre lasciate così, senza tende o cazzi vari. Era a due piani. Sua cugina le aveva raccontato che lì dentro ci facevano di tutto. Una volta avevano organizzato un’orgia con rettili annessi. Cioè, ci si sbatteva di qua e di là mentre serpenti e simili giravano per casa. Non ho idea del motivo per cui facevano una roba simile, eppure la facevano.
-Questa te la ricordi sicuro, vero?-
Io sorrisi e lei mi diede un pugno sul petto. Mi fece male, ma mi piaceva parecchio quando faceva così.
-Sei il solito porco.- Mi disse, guardandomi con relativo disprezzo.
L’aveva fatto di proposito, a dare per scontato che io mi ricordassi bene di quella foto. E io c’ero cascato in pieno.
Continuò per qualche secondo a scandagliare le foto, ma ora lo fece più svelta, come se se la fosse presa davvero, oppure perché alla fine si era stufata pure lei.
Io ricominciai a guardarmi intorno e con la coda dell’occhio vidi lei che le stava buttando tutte a terra. Mi sentii un pò in colpa. Poi pensai che almeno non mi avrebbe più chiesto se mi ricordavo di quella o di quell’altra. Ma mi sbagliavo.
-E queste?- Fece lei, -Queste te le ricordi, cazzo?-
Io ero parecchio fatto, e non saprei dirvi di cosa. Però avevo sentito che ora aveva usato il plurale, ed ero sicuro di averle viste cadere tutte a terra quelle dannate foto.
Ero fatto. E quando vidi tutto buio non mi preoccupai più di tanto. A volte mi succedeva, e succedeva pure a lei.
-Allora?- Insistette, -Te le ricordi, queste?-
Mi resi conto che attaccato alla mia faccia c’era qualcosa che si muoveva su e giù, a destra e a sinistra. Era qualcosa di morbido, caldo e protettivo.
Quella cosa erano le sue tette. E io cominciai a muovere la faccia lì in mezzo.
-Allora te le ricordi…- Disse lei, mentre le sollecitava tutte.
Fu all’improvviso che cademmo dal divano. E fu in quel momento che mi resi conto che la roba era sotto al tavolo di legno davanti al divano. La vide anche lei e allora ci bloccammo. Eravamo indecisi sul da farsi. Cioè, se farci di quella roba o semplicemente se farci e basta. Alla fine scegliemmo entrambe le opzioni. Non ricordo bene in che ordine ma vi giuro che fu un delirio.
Eravamo a terra, completamente nudi, con le foto che ci facevano da tappeto.
E nel mito di Malibù, io e lei andammo sempre più giù.

20/01/14

Red Milk



La dolce Mia voleva ancora un pò di latte. Glielo fece capire allungandogli il bicchiere che era sul comodino. C’era ancora del bianco, sul fondo, e l’odore del latte si percepiva in tutta la stanza. Lui cominciava ad odiarlo.
-Credo che fra poco dovrai fare da sola, amore mio.- Le disse, mentre la guardava girarsi e rigirarsi sotto alle coperte.
Mia lo sentì uscire dalla camera e andare probabilmente verso la cucina. Stava pensando che forse, dopo, avrebbe potuto riprovare a farsi toccare. Ci sperava, più che altro.
Si tirò un pò su e si mise seduta, con la schiena che posava su due cuscini e la testa che si teneva da sola. Marcus ci stava mettendo più del previsto, allora lei lo chiamò. Una, due, tre volte. Mia si alzò dal letto quando sentì quel rumore. Pensò subito che la bottiglia di latte gli fosse caduta a terra. Era di vetro. Lui non rispose mai. Fece tutto così di corsa che rischiò di inciampare più di una volta, in camera e poi quando era quasi in cucina. Il piede destro, nudo come quello sinistro, si bagnò. Come se all’improvviso fosse stato intinto in una tazza con poco fondo. La sua cecità non le permise di vedere con cosa avesse a che fare, ma Mia era quasi certa si trattasse di latte. Si chinò, mise una mano a terra e poi se l’annusò. Si era sbagliata, perché quella cosa non era latte. Magari di latte ce n’era pure un pochino lì in mezzo, ma quell’odore le fece venire in mente il giorno precedente, quando si era tagliata mentre affettava il pane. Sangue. E ce n’era pure tanto.
Mia chiamò il suo Marcus più volte, alla sesta urlò il suo nome con tutta la forza che aveva in corpo. Cominciò a tastare un pò ovunque, a terra e sull’isola della cucina. La bottiglia era lì, rovesciata. Era caduta sul ripiano, accanto al ceppo di coltelli e alla macchina per caffè. Mia la sentì integra, i vetri tutti al loro posto. Non riusciva a capire cose fosse successo. Poi, mentre lei girava attorno all’isola per trovare Marcus e con lui delle risposte, il suo piede sinistrò toccò qualcosa. Mia si abbassò subito e cominciò a tastare. Riconobbe dei capelli, poi una fronte, un naso, una bocca e un mento. Continuò la perlustrazione di quel corpo e arrivò al suo petto nudo, con pochi peli. Verso il centro, poi, Mia incrociò qualcosa. Quel corpo, non aveva dubbi, era il corpo del suo Marcus. Quella cosa, aveva ancor meno dubbi, era un coltello conficcato nel petto di Marcus.
Mia si alzò di scatto, tanto che iniziò a girarle la testa. In quel momento sentì chiamare il suo nome. Probabilmente, quella voce, proveniva dalla camera da letto, che nel momento in cui Mia l’aveva lasciata era rimasta vuota. Eppure, ora qualcuno doveva esserci. Era una voce di donna che a lei sembrò familiare. Lasciò il suo Marcus lì a terra e tornò verso la camera da letto. Mia ebbe un attimo di esitazione perché, prima di varcare la soglia, le parve di vedere la grande tv su quel mobile davanti alla parete. E non fu un’impressione.
Mia ci vedeva, ma quando entrò nella stanza non ci pensò più, perché qualcosa di ancor più sconvolgente era lì ad attenderla. Sul letto, seduta con la schiena che posava su due cuscini e la testa che si teneva da sola, c’era lei. Lei stessa. Mia se la guardava. Era mezza vestita come lo era lei, in quel momento: canottiera bianca fino all’ombelico e un paio di shorts rosso ciliegia, e i capelli legati a coda di cavallo. Mia le guardò i piedi che, come tutto il resto, erano fuori da lenzuola e piumino. Vide che la pianta di entrambi era un pò bianca, un pò rossa. Un pò latte, un pò sangue.
Mia alzò lo sguardo verso di lei, che proprio in quel momento aveva messo una mano sotto alle coperte e ci aveva tirato fuori una pistola. Ora se l’era portata sulla tempia, mentre continuava a fissare la Mia che era davanti a lei, in piedi, con la faccia di chi ha visto l’impossibile e con la mano protesa in avanti.
-Non farlo!- Urlò.
Lei, dal letto, le sorrise.
-L’hai già fatto.- Le disse, prima di premere il grilletto.

10/01/14

La linea rossa



Rosso. Come la passione. Come la voglia di mettere radici alla relazione.
Salti nel vuoto, salti nel fuoco. Ma quando cadi e ti spaventi, stringi i denti e segui le correnti.
In alto mare. Rosso. Come il sangue che grida a fatica e ti stringe la vita.
Salti nel vuoto, non è un gioco. Ma quando cadi e ti sporchi, capisci che rialzarsi è per i forti.
La linea rossa che incontri ti dice che se non la superi, sprofondi. Affondi.
Rosso. Come il colore del dolore. Dell'odore di un ginocchio sbucciato. Rosso come uno stomaco falciato.
Salti nel vuoto, sbagli luogo. Ma quando cadi e ti spaventi, sei già nel limbo dei perdenti.
In purgatorio. Rosso come una rissa in oratorio. Rosso come quando l'invidia la vita t'insidia.
La linea rossa che incontri ti lancia una sfida. T'opprime. Rosso come l'amore sublime.
Salti nel vuoto, ancora per poco. E quando cadi dopo aver tirato i dadi, capisci che non è la vita che ti vuole male. Ma solo tu e quel tuo viverla banale.