04/04/20

Demo



Aveva caricato le demo nel suo lettore portatile ed era uscito di casa, con addosso una maglietta ancora inumidita dai ricordi della sera prima. Il gruppo che aveva conosciuto lo scorso weekend era una band romana con un nome da incubo, secondo lui. Si chiamavano “Cane nel deserto” e non si capiva bene che genere facessero. Un simil rock mischiato con qualche goccia di jazz, forse, con l’aggiunta di una leggera spruzzata di elettronica. Ne veniva fuori un risultato sconcertante ma allo stesso tempo devastante, un cocktail allucinogeno che tentava di afferrarti dal principio e di portarti a fondo verso quel finale mai desiderato. Eppure, quelle note nemiche che facevano la guerra col suo udito iniziavano a prendere il loro spazio, entravano dentro al suo corpo senza invito e si mettevano comode sul divano, dopo aver spostato la sua roba e il suo equilibrio precario.
Aveva alzato gli occhi verso il cielo mentre finiva il primo pezzo. Gli aveva lasciato addosso una sensazione di naturale incompiutezza. Era il pezzo di apertura, cavolo, avrebbero dovuto curarlo nel modo giusto, pulire lo sporco e sporcare l’immacolato. Il loro nome doveva iniziare a spiegarsi, ad avere un senso, a dare almeno una vaga idea su cosa ci facesse quel cane nel deserto. Aveva lasciato la luna lì dov’era, nascosta dal più geloso dei giorni, e aveva ristabilito un contatto con la strada mentre il secondo brano si avviava verso una fase di stallo, dopo aver tracciato un percorso più popolare, quasi folkloristico. Il terzo sembrava fatto per arrivare dritto al cuore, una ballata che ti accarezzava i sogni e liquidava i tuoi incubi più neri. C’era una parte più frenetica, poi. Ma era un falso. Una presa in giro. Saliva in alto ma senza arrivare dov’era lecito aspettarsi, per poi scendere lentamente fino a ritrovare le più nostalgiche sonorità dell’amore. Il quarto, l’ultimo, era davvero molto veloce. Un pezzo di circa 3 minuti e mezzo che metteva le cose in chiaro; quel povero cane non era fatto per stare nel deserto, piuttosto su una pista da ballo del futuro rimasta imprigionata in un angolo sporco e deprimente del presente. Ma con un occhio furbo e rispettoso verso il meglio del passato.
Quelle demo gli erano piaciute anche se non sapeva bene il perché. Ma non erano le uniche che aveva ascoltato. C’erano gli altri due gruppi. Simili, magari, ma con maggior identità e consapevolezza rispetto alla band romana. Non poteva dare una chance a tutti. Entro quella sera avrebbe dovuto scegliere con chi lavorare e lui non si era fatto alcun’idea, neanche la più confusa.
La via di casa se la ricordava nel frastuono della sua testa, colpita a ripetizione da quella musica primordiale. Si era trasferito da poco. Le sue cose ancora sparse, i mobili fermi nelle pagine internet di Ikea. In effetti, lui, maschio incartato e riluttante nel definirsi uomo apertamente, riteneva il concetto di demo molto simile al suo stato attuale; un campione dimostrativo, registrato pure male, di una vita caotica ancora da comprendere e poi da sistemare. E un nome di donna da dimenticare.
Entrare da quel lato gli piaceva. Il piccolo giardino con la sua fragile natura lo accoglieva di nuovo, come all’inizio di ogni ritorno di fiamma. La porta finestra era stranamente aperta e lui era entrato con una certa tensione. Era sicuro di averla chiusa. Con passi lenti ma decisi, aveva percorso il corridoio che portava al salone quasi deserto. La creatura aveva preso posto sul divano, con la coda che scodinzolava, in mezzo alle sue cose e al suo equilibrio precario.
Un cane, dall’aria dolce e familiare di cui potersi innamorare al primo sguardo.