28/01/20

Ruby Tuesday


Ruby era entrata da circa due minuti. Si era seduta al bancone, dove le piaceva stare. Lorette non era certo il suo locale preferito, ma ci lavorava sua sorella e non poteva fare a meno di andarci, di tanto in tanto.
-Tutto ok?- Domandò Mia mentre la serviva.
-Potrebbe andare meglio.- Disse Ruby.
-Ehi, sorellina, il caffè.-
Ruby era girata verso quel tavolo da quando aveva messo piede lì dentro. Non si era accorta nemmeno che il suo bel caffè fumante, ora, era lì che aspettava. Ne bevve un sorso, così, giusto perché l'aveva ordinato. Per quanto il posto non le andasse a genio, era una cosa che di solito si godeva. Quel giorno, invece, il caffè era diventato una pratica da sbrigare, ma che andava sbrigata con tutta la calma di questo mondo.
Mia stava servendo un cliente. Un piatto con Hamburger Lorette (cottura media) e patatine. Ruby la vide aggiungere del ghiaccio nel bicchiere di coca e poi tornare verso di lei con aria incuriosita.
-Chi dei due?-
-Cosa?-
Mia sospirò.
-Quale dei due ti piace? Il biondo o il moro?-
-Ma di che parli?-
-Di Mick King e suo fratello Sam.-
-Sono fratelli?- Ruby pareva davvero meravigliata.
-Si.- Rispose sua sorella. -Quello sulla destra, Sam, è biondo finto.-
Ruby sorseggiò un po' di caffè. Mia se la guardò.
-Ma a te piace Mick, vero sorellina?-
-La coca di quel tizio si starà scaldando.- Indicò Ruby con la testa.
-Ne dubito. Ne ho aggiunti ben 5, di cubetti.-
Ora Ruby si era girata di nuovo verso quei due.
-Se vuoi la mia opinione, stanne alla larga. Non girano belle voci sul suo conto.- Disse Mia.
-E sul mio, invece?-
-Tu non c'entri nulla con Mick King, sorellina. Sei dolce e carina, e lui...- Mia si fermò. Ora anche lei guardava verso il tavolo dei fratelli King. Mick aveva fatto cadere la birra addosso a Sam.
-Cazzo fai?- Gli disse. -Guarda come hai ridotto le mie Adidas.-
Mia appoggiò la mano sul braccio della sua collega.
-Vai tu, Anna?-
-Tranquilla, stai qui con Ruby.- Le sorrise.
Ruby posò la tazza, l'aveva quasi finito.
-Comunque io lo conosco, Mick King.-
Mia se la guardò, perplessa.
-Davvero?-
-Si, ci esco ogni sabato pomeriggio.-
-Ma non vai a studiare da Karen, di sabato?-
-Quella è una cazzata che racconto a mamma e papà.-
-Mi stai prendendo per il culo, sorellina?-
Ruby stava osservando Anna che puliva per terra, mentre Sam le guardava il culo. Mick era in piedi e sembrava volesse dare una mano.
-Guardami un po', Ruby.- Mia la richiamò all'attenzione. -Non è che andate a scopare?-
-Per niente.
Un tizio, nel frattempo, voleva ordinare. Mia gli fece segno con la mano, come per dirgli “non rompere i coglioni che sto parlando con mia sorella.”
-Allora dove cazzo vai, con quel coglione, di sabato pomeriggio?-
-Al poligono.- Disse Ruby.
Mia non ci stava capendo più niente.
-E che cazzo ci fai a fare, al poligono, con Mick King?-
Sapeva bene cosa si faceva in un poligono, ovviamente. Ma il fatto che ci andava sua sorella Ruby, era davvero una scoperta per lei. E che ci andava con quel soggetto era ancora peggio.
-Ora ti faccio vedere.-
Ruby mise la mano destra nella sua borsa, che pendeva dallo schienale dello sgabello, e tirò fuori un revolver che era più grande di lei. Aveva visto il tizio della coca che allungava il bicchiere verso sua sorella, per farselo riempire di ghiaccio, forse. Prese la mira, in fretta, e sparò un colpo, mandando in frantumi il bicchiere. Il tizio si guardò la mano che gli sanguinava, ma probabilmente si era ferito con il vetro perché il proiettile che era partito non l'aveva nemmeno sfiorata, quella mano.
Mia era a bocca aperta. Qualcuno aveva iniziato ad urlare, ma Mick era già davanti alla porta a vetri per non far uscire nessuno. Aveva anche lui una pistola, forse una Glock, e ora la stava puntando verso i clienti.

02/01/20

Confessioni di un fantasma


Avevo raggiunto la vetta del Picco di Circe. Non il punto più alto, in realtà. Mi ero seduto su un sasso e aspettavo i miei compagni che avevano proseguito fin su. Mi era stata presentata come una passeggiata da primo dell’anno, quella roba lì. “Tranquillo. Jeans e un paio di scarpe da ginnastica andranno benissimo”. Si, come no.
Ero abbastanza stremato e non volevo credere al fatto che, molto probabilmente, la discesa sarebbe stata ancora peggio. Me ne sarei reso conto qualche minuto più tardi, quando le gambe avevano iniziato a tremare e a maledirmi ad ogni passo.
Il sole riscaldava le rocce e parte del mio corpo. Mi batteva in faccia e sulle braccia. Non era ancora sceso del tutto ma quello che si stava preparando era, senza dubbio, un tramonto da afferrare e da portarsi dietro per un bel po’.
Avevo preso in mano l’iPhone per scattare qualche foto ma i raggi del sole non mi mollavano. Avevo abbassato lo sguardo e, in quel momento, mi era sembrato di non essere più solo. C’erano delle voci che provenivano più avanti, verso la fine del monte, ma in quel punto preciso non c’era nessuno, a parte me. Mi ero liberato dell’iPhone ed ero tornato ad osservare una roccia poco distante. Era l’ultima prima del nulla. Dopo di lei, solo l’orizzonte che iniziava pian piano a prendere i colori di un’arancia non ancora matura. Ero davvero esausto ma nel frattempo ero riuscito a rilassarmi e a ritrovare una buona percentuale di lucidità. Poco meno della metà, forse, in linea con la batteria del cellulare.
Era pieno, di rocce simili a quella. Eppure, per un attimo, mi era sembrato di notare qualcosa di diverso. Qualcosa che ora stava tornando, con molta lentezza, fino a rivelarsi totalmente per quello che era: una mano. Una mano bianca, molto bianca, che afferrava la roccia. Poi, sempre lentamente, era spuntato un viso con dei capelli lisci, di media lunghezza, che danzavano seguendo il leggero soffio del vento. Le avevano coperto il viso, per un attimo, poi lo avevano liberato mostrandolo nella sua interezza; un volto spento di ragazza si era affacciato oltre quella roccia, e aveva costretto le mie mani a posarsi rigide sul sasso su cui sedevo.
Per qualche secondo, il gelo aveva preso possesso del mio corpo. Non aveva bussato. Aveva semplicemente sfondato la porta del mio petto, era entrato e ci si era chiuso dentro. Respirare profondamente era necessario ed era ciò che tentavo di fare, stringendomi nella mia felpa per cercare di resistere a quei maledetti brividi. Ma lei mi stava fissando, e allora ciò che mi ero promesso di fare rischiava di diventare davvero molto complicato.
-Potresti almeno chiedermi se mi serve aiuto, eh?-
Ora aveva iniziato anche a parlare. La mia bocca era cucita. Il gelo avrebbe potuto uccidermi all’istante.
-Ti...ti serve aiuto?- Le avevo chiesto, infine, tirando troppo per le lunghe quel ti.
-Mi prendi anche per il culo? Comunque grazie ma credo che tu non possa aiutarmi.-
-Potrei provarci, se vuoi.-
-Davvero?-
-Si.-
Mi ero allungato e avevo portato la mia mano accanto alla sua. Poi l’avevo stretta ma non avevo preso nulla. Non c’era. Era una mano vuota. E da vicino era ancora più bianca.
-Visto? Che ti avevo detto?-
Mi ero sentito in colpa e mi ero tirato indietro, di nuovo seduto su quel sasso. Ci stavamo fissando a vicenda, entrambi sorpresi da quel singolare incontro.
-Dovrei risalire ma non ci riesco. Dovrei farlo davvero. Temo di non avere più molto tempo.-
-Non so perché riesci a vedermi e a parlare con me,- Aveva proseguito. -Evidentemente ci sarà un perché. Ad ogni modo, visto che sei qui, avrei da farti una confessione, se non ti dispiace.-
Il gelo se n’era andato, quasi del tutto. Volevo ascoltarla, più di ogni altra cosa.
-Dimmi.-
-Ok. Non è una cosa facile. Non l’ho detto a nessuno, prima d’ora. Io sono caduta, non so se l’avevi capito. Ma credo che non sia stato un incidente, anzi, ne sono sicura. Ero qui con il mio ragazzo, mi sono girata e ho perso l’equilibrio. Credo sia stato lui, a spingermi.-
Il gelo era tornato. Così forte da paralizzarmi.
-Eravamo soli, come siamo soli ora io e te. E se qualcuno non mi avesse toccata, io non sarei caduta. Il fatto è questo; ho passato un mucchio di tempo a domandarmi perché. Ho pensato e ripensato. Sono andata indietro con la mente e ho cercato nelle nostre vite, sperando di arrivare a capire, finalmente, cosa possa aver fatto di tanto orrendo per meritare questo.-
Per la prima volta da quando si era affacciata da quella roccia, la ragazza pallida aveva abbassato lo sguardo. Timorosa, a disagio.
-Se riuscissi a capirlo, credo che potrei andarmene da qui. Sarebbe una bella cosa, per me.- Era tornata a guardarmi. Cercava di ritrovare una forza interiore, una dignità che si era pian piano spenta come il colore della sua pelle.
-Ma ti sto ammorbando, mi sa.- Mi aveva detto, col sorriso più sincero che avesse potuto fare.
Io ero lì a guardarla e ripensavo alla sua storia. Al finale, più che altro. Così doloroso che anche il vento si era concesso una pausa e aveva smesso di soffiare.
-No, per niente.- Non ero riuscito ad aggiungere altro. Poi, ripensandoci, qualcosa da dirle l’avevo trovata. -Io non ti conosco e non ho idea di come sia stata la tua vita. Ma ora che ti guardo negli occhi, sono più che convinto che, qualsiasi cosa tu abbia fatto, non debba essere per te un tormento. Non cercare spiegazioni dove non puoi trovarle, non trascinare la tua nuova esistenza sopra questo picco. Per quanto sia incantevole, non ne vale davvero la pena.- Le avevo sorriso anche io. Avevo cercato di farlo come lo aveva fatto lei, ma sapevo di non esserci riuscito.
-Facciamo così,- Le avevo detto. -Ora io inizio la discesa. Ne avrò per un po’, di sicuro. Per un bel po’. Nel frattempo, tu fai quello che devi e poi ti stacchi da quella roccia. Prenditi il tempo che ti serve, senza fretta. Guarda l’orizzonte. Quando avrà il colore di un’arancia matura, fallo. E ricomincia ad amarti.-
-Ok.- Mi aveva regalato un altro sorriso. L’ultimo, forse. Il più amaro ma il più sincero.
Il vento era tornato a soffiare leggero. I suoi capelli lisci brillavano sul mare.
Con qualche difficoltà e con una scivolata alquanto imbarazzante, ero riuscito infine a tornare giù, al punto da cui ero partito. Avevo preso un gran respiro e poi mi ero voltato, avevo alzato lo sguardo verso il cielo e avevo visto la ragazza color arancio, immersa in quel sole sottile ma ancora caldo.