22/03/20

Protezione divina


Non era una buona idea. Per niente. Ma in quei giorni, in quelle ore, in quei momenti di vita rubata mi veniva ancora più semplice del solito mentire a me stesso. Lo sapevo. Quelle notti passate in macchina, in 4, sarebbero state presto solo un ricordo, pensavo. Un’immagine che si siede accanto a te, in cella, e che ti tiene compagnia insieme agli altri trasgressori in mascherina. Ma cazzo, avevo da poco compiuto vent’anni. E il mio cervello, per quanto lo ritenessi superiore alla media, era scollegato dal resto del corpo e vagava chissà dove in cerca di qualche risposta.
La proposta, comunque, era stata di Flavio.
-Prendiamo la macchina di mio padre. Andiamo prima sotto casa di Bea, che è più vicina, poi passiamo da Marzia. Il posto non è molto distante da lì. Saranno al massimo 5 minuti.
Conoscevo Flavio dalle elementari. Lui aveva lo zainetto delle Tartarughe Ninja, io quello di Spider-Man. Ci scambiavamo sempre la merenda. Sua madre preparava un panino con salame e Philadelphia che era la fine del mondo. La mia, invece, ci metteva l’insalata perché faceva bene, o almeno così diceva. A me sembrava solo un noioso discorso da adulti, e poi quella roba verde era fastidiosa in bocca e rovinava il sapore del prosciutto cotto. In ogni caso, a Flavio piaceva. Poi ha conosciuto Bea e oggi, di insalata, ne mangia a vagoni perché lei è vegetariana. Ma a lui sta bene.
Era un suv della Toyota, color grigio metallizzato. Un gran bel mezzo di trasporto, senza dubbio. Comodo. Ma privo di quel fascino classico e innato che dovrebbe avere una vera automobile. Io stavo cercando qualcosa di interessante alla radio. Avevo trovato una replica della “Zanzara” di Cruciani. Si parlava della facoltà di uscire di casa semplicemente per fare due passi o una corsa. Una cosa che, almeno fino a quel momento, era del tutto lecita. Flavio guidava.
-Questa roba la trovo davvero assurda. - Aveva spezzato il silenzio con una smorfia.
-Che intendi? -
-Questo fatto della gente che esce per andare a spasso. Che ora tutti chiamano “fare sport”. Insomma, le persone muoiono. È una cosa seria. Si sta solo cercando di evitare il più possibile di contagiare e di essere contagiati, giusto? -
-Credo di si. - Gli avevo risposto, mentre incrociavo le braccia.
Flavio mi aveva dato un’occhiata, staccando per un attimo gli occhi dalla strada.
-Non mi sembri molto convinto. -
-No. Cioè, è giusto che si faccia il possibile per limitare i contagi. Ma allora quella gente in metro? Hai visto il video che ti ho mandato oggi?

-Si, l’ho visto. -
-Eh. Non pensi sia molto più pericolosa una situazione del genere che quattro gatti che si fanno una corsa intorno al loro palazzo? -
-Se la metti così, direi di si. Eppure…boh, non li posso proprio vedere. Non so dirti il perché. Oggi mi sono messo in balcone e facevo finta di puntare un fucile contro ogni persona che vedevo correre.-
Ero rimasto in silenzio per qualche secondo. Poi gli avevo detto che era un coglione. In effetti, glielo dico ancora oggi.
-Non lo so. Erano le 6 e qualcuno aveva messo “Gli Spari Sopra” di Vasco Rossi. Che ti devo dire, mi sono fomentato. -
La strada era libera, come ogni notte. Eravamo convinti che sarebbe rimasta tale. Che nessuno ci avrebbe mai tolto quel momento. O forse, a pensarci bene, non era una convinzione reale ma solamente quello che ci raccontavamo a vicenda per sentirci più forti di quanto eravamo.
Flavio aveva tirato fuori una sigaretta dal taschino della giacca. Si era girato verso di me mentre guardava la strada con la coda dell’occhio. Allora io avevo preso lo zippo dalla mia tasca e lo avevo fatto accendere.
-Grazie. Lo sai che prima o poi te lo rubo, quel coso. -
Avevamo questa specie di rito, io e Flavio. Io non fumavo ma mi portavo appresso lo zippo dei Rolling Stones che era di mio zio. Era diventato un portafortuna che avevo sempre con me. Flavio, quando uscivamo insieme, non si portava l’accendino di proposito solamente per vedere di nuovo lo zippo. E per tentare, come sempre, di farselo regalare. Ci prova ancora oggi, in realtà.
Avevo dato un’occhiata al mio iPhone. Su Facebook c’era qualche notifica che era meglio ignorare e, in home page, esperti in materia che dicevano che il virus sarebbe tornato a intervalli più o meno regolari, altri che erano del parere che era solo questione di tempo, prima di sconfiggerlo in maniera definitiva. E poi c’erano gli esperti che commentavano i pareri degli esperti. E così via.
In poco tempo, secondo le previsioni di Flavio, avevamo raggiunto la meta. Tutti e 4 insieme, nel suv. Bea e Marzia, dietro, stavano parlando di smalti per le unghie. Flavio stava scrivendo qualcosa sul suo cellulare e io cercavo qualcosa di buono alla radio.
-Lascia questa. - Mi aveva detto Marzia, con quel tono dolce che tende a schiavizzarti.
Come sempre, era un pezzo che conosceva solo lei.
In quel punto preciso, alla fine di quella via, si poteva vedere la Luna nella sua interezza. Un’angolazione perfetta che ti regalava un attimo divino. A quella vista, ogni problema diventava polvere. E ogni emozione valeva almeno il doppio.
Spendevamo la notte fuori, con l’idea di riprenderci quello che di giorno ci stavano togliendo. Ci eravamo scambiati posizione. Io ero passato dietro accanto alla mia ragazza, Bea aveva preso il mio posto vicino a Flavio.
Passavamo varie fasi, fra cui quella del bacio, del sonno, del far nulla, dell’inventarsi stupidi giochi andati perduti, del conoscersi ancora una volta nelle nostre parole e nei nostri gesti.
Mi ero messo a giocherellare con lo zippo mentre guardavo fuori dal lunotto posteriore. E a quel punto avevo notato le scatole nel bagagliaio.
-Che roba c’è qui? -
Flavio si era girato.
-Dove? Nel bagagliaio? Sono le mascherine nuove che gli sono arrivate a mio padre. Domani deve portarle a lavoro. -
-Sono cinesi. - Avevo notato.
-Si. E sono le migliori che puoi trovare ora. Probabilmente è ancora l’unico ad averle. -
Avevo alzato di nuovo gli occhi e l’avevo vista in quel preciso momento.
-Cazzo. Siamo fottuti. -
Una volante della polizia, a luci spente, veniva verso di noi.
-Ok, prima o poi sarebbe dovuto succedere. - Aveva detto Flavio, cercando di rimanere calmo e di infondere tranquillità anche a noi tre.
-Lasciate parlare me. Ci penso io. -
Marzia continuava a ripetere “merda merda merda merda…”
Bea si mangiava le unghie.
-Siamo fottuti, Fla. - Ripetevo io.
Sceso dalla volante, il tipo in divisa aveva fatto un cenno con la mano al suo collega, che era rimasto in macchina. Ci aveva raggiunto e si era avvicinato con la faccia al posto di guida.
-Abbassa il finestrino, Fla. - Gli avevo detto, mentre mi giravo e rigiravo lo zippo nella tasca.
-Ragazzi, sono le 3 di notte. Mi sembra inutile chiedervi il motivo della vostra uscita. Anche perché siete fermi in uno spiazzale. Però voglio darvela, questa possibilità, e vi chiedo di dirmi sinceramente cosa diavolo state facendo. -
Io e Flavio ci eravamo girati verso le nostre ragazze. E loro avevano fatto lo stesso.
-Allora? - Incalzava l’agente.
E mentre Flavio stava per dire qualcosa (ora che ci penso, non gli ho ancora chiesto cosa gli era venuto in mente), era intervenuta Bea.
-Agente, - Aveva detto, mentre pezzi di unghie le cadevano a terra, -Abbiamo l’ultimo modello delle mascherine cinesi. Quelle buone. -
-Oddio. - Flavio aveva chinato il capo e se lo reggeva con la mano destra. Si stava nascondendo.
-Sta cercando di corrompermi con delle mascherine? - L’agente sorrideva, incredulo. -Perché, vede, noi ne abbiamo in abbondanza e… - E mentre andava avanti nel discorso, veniva interrotto dal suono della sua radiolina.
Una sua collega, che lo chiamava “amore”, lo aveva messo al corrente della sparizione di circa un centinaio di mascherine destinate a loro e ad altri colleghi. Rubate, forse.
Avevamo accompagnato Marzia e Bea a casa. Io e Flavio, ancora in macchina, ci stavamo guardando a vicenda. Eravamo stanchi morti ma siamo comunque scoppiati a ridere, dimenticandoci presto che poco tempo prima avevamo rischiato un infarto. E che lui, ancora peggio, avrebbe dovuto inventarsi qualcosa per giustificare a suo padre la mancanza di una trentina di mascherine.
Ora che ci ripenso, davanti allo zippo di mio zio e ad un caffè venuto male, mi torna in mente Marzia. E cerco di ricordare, invano, quella canzone che conosceva solo lei.

16/03/20

Segnati


Si erano conosciuti quando la tempesta era già finita, e aveva lasciato il posto ad un sole intrigante che splendeva sulle piazze affollate.
Si poteva sentire un solo unico respiro e distinguere, allo stesso tempo, ogni singola anima che sprigionava le paure dell’isolamento e le tramutava in energia imbarazzata; timorosa, dubbiosa se concedersi almeno un abbraccio o, addirittura, il lusso di un bacio.
I segni di quel passaggio di vita erano sotto gli occhi di tutti e sulla pelle di molti. Dentro, poi, si consumava ancora, inevitabilmente, una guerra dei sensi che aveva reso più povere le menti (e le tasche) della gente. Rifarsi, rimettersi prima seduti e poi in piedi non sarebbe stato facile ma neanche impossibile.
Dentro a quel bar di periferia, Anna e Giulio erano seduti l’uno di fronte all’altra. Senza distanza di sicurezza ma con quella psicosi rimasta incollata alla faccia.
-Dovresti levarla. Almeno per bere quel cappuccino. Non credi?
Le aveva detto Giulio, con un sorriso così onesto che aveva spinto Anna, quasi fisicamente, ad accettare il suo consiglio.
Anna, con la mano tremante, aveva fatto scendere giù la sua mascherina e si era lasciata andare anche lei, seppur a fatica, ad un sorriso che diceva “Ok, eccomi qui. Ci sono.”
Il cappuccino entrava bollente a scaldare quelle due vite, emozionate ma anche un po’ fuori fase. I rumori delle cose, i suoni delle loro parole e gli sguardi nuovi.
La mano di Anna aveva smesso di tremare e ora stringeva quella di Giulio.
E i loro occhi, segnati, cominciavano a rientrare in gioco.